Swiss Institute | 38 St. Marks | Corriere del Ticino
Mar 27 2018
IL RENDERING La nuova sede dello Swiss Institute nell’East Village. A sinistra, Simon Castets. (Foto ©Selldorf Architects)
L’INTERVISTA || SIMON CASTETS
«L’incantevole stranezza dell’arte svizzera»
Lo sguardo del direttore dello Swiss Institute di New York sulla scena contemporanea
Le capitali del mercato dell’arte sono oggi molto diversificate. Città come Shanghai, Hong Kong o Città del Messico si stanno profilando sempre più come i nuovi poli internazionali. Nonostante ciò, New York rimane il centro incontrastato dell’arte contemporanea, sia per la qualità sia per la quantità di ciò che è proposto quotidianamente a ritmo frenetico. Fra le istituzioni e organizzazioni più importanti della città, un posto di prestigio è rappresentato dallo Swiss Institute (SI), sorta di emanazione internazionale delle attività di Pro Helvetia, fondato nel 1986. Nel mese di giugno l’Istituto inaugurerà un nuovo edificio nel cuore della città. Si tratta di una tappa fondamentale che permetterà di rafforzare ulteriormente la sua presenza e il suo impatto. Sarà infatti la prima volta che l’Istituto avrà una sede appositamente pensata e costruita per la sua specifica missione. A dirigere l’SI, dal 2013, è Simon Castets, nato nel 1984 a Caen in Francia, formatosi alla Columbia University e a SciencesPo a Parigi.
Simon Castets, per cominciare, ci può parlare del nuovo edificio?
«La nuova sede si troverà nell’East Village, all’angolo fra la Second Avenue e St. Marks Place, forse la zona con la presenza pedonale più marcata di Manhattan. Rappresenta un’estensione importante della sede precedente. In giugno ci sposteremo in un edificio pensato sin dall’inizio per durare nel tempo e ciò ci ha dato la possibilità di personalizzarlo per concepire progetti che prima non avremmo potuto realizzare. Tutti i piani saranno accessibili al pubblico, avremo una libreria e uno spazio espositivo, delle gallerie specifiche. Il secondo piano, completamente circondato da vetrate, ospiterà la nostra biblioteca e la sede del centro educativo. Il tetto sarà convertito in un giardino pubblico, sarà un nuovo spazio di incontro, ma anche un luogo capace di accogliere progetti d’arte. Una cosa molto diversa, rispetto agli spazi precedenti, è che avremo volumi diversi all’interno dello stesso edificio. Questo ci permetterà di eseguire progetti su grande scala, ma anche di promuovere idee e situazioni più intime».
– Nel nuovo edificio saremo ancora più liberidi sperimentare e di aiutare gli artisti –
Qual è la caratteristica principale della programmazione dell’Istituto?
«È la libertà di sperimentazione. Il nostro team è relativamente piccolo e tutti noi lavoriamo alacremente per aiutare i nostri artisti a realizzare le loro visioni. Ci impegniamo a creare un luogo dove il pubblico possa compiere nuove scoperte. Vogliamo mantenere il nostro impegno per la sperimentazione, ma vogliamo anche continuare l’eredità di altre organizzazioni del mondo dell’arte presenti nell’East Village. Desideriamo inserirci nel nuovo quartiere sapendo che ci resteremo per molto tempo. Stiamo creando dei progetti pensati per gruppi di diverse generazioni, per i bambini, gli adolescenti e per un pubblico più anziano. Desideriamo creare un nuovo spazio che sia favorevole ed accogliente per tutti, incoraggiando l’interesse e l’educazione all’arte contemporanea».
Lei è stato nominato nel 2013 e da allora ha ampliato considerevolmente l‘azione dell’Istituto. Cinque anni più tardi, qual è il suo primo bilancio?
«Ho sempre ricercato un doppio obiettivo: sostenere i giovani artisti e quelli meno riconosciuti e allargare al contempo il nostro pubblico. Sono molto fiero perché l’entrata è gratuita. Fra le novità che ho introdotto c’è la “Swiss Institute’s Annual Architecture and Design Series” che oggi è diventata una componente vitale del nostro programma. Ogni anno invitiamo un nuovo curatore specializzato nel campo dell’architettura e del design.
Per esempio, il primo anno Andreas Angelidakis ha trasformato i nostri
spazi in una reinterpretazione della pièce di Eugène Ionesco “Le Sedie”. L’anno seguente, l’editore della rivista “PIN-UP”, Felix Burrichter, ha reinventato il famoso “Pavillon de l’Esprit Nouveau” di Le Corbusier.
Quest’ultima esposizione è stata la più seguita nella storia dell’Istituto
svizzero di New York. Sono felice di inaugurare il nuovo spazio con la terza edizione di questa serie che sarà curata da Niels Olsen e Fredi Fischli, entrambi dell’ETH di Zurigo. Ogni serie ci permette di confermare il nostro impegno per la sperimentazione e di scoprire gli artisti, architetti e designer contemporanei più interessanti».
Nel corso del suo mandato quali sono stati i progetti che più le sono stati a cuore?
«I nostri progetti sono sempre delle opere collettive. Ovviamente ciò che mi interessa sul piano personale trova spazio nel programma, ma abbiamo una
missione istituzionale e il nostro programma riflette questo, in primo luogo. Se devo citare una mostra che mi è stata particolarmente a cuore, fra le tante, penso a quella dedicata all’artista svizzera Heidi Bucher, scomparsa nel 1993 e poco conosciuta nonostante un percorso eccezionale, o alla serie “One for All” dedicata a giovanissimi artisti che si stanno profilando sul piano internazionale».
Lei è francese, vive negli Stati Uniti e collabora con le istituzioni svizzere. Dal suo punto di vista particolare e così unico qual è il ruolo della scena artistica svizzera a livello mondiale?
«La Svizzera è un Paese molto specifico all’interno della realtà europea e la sua arte riflette questa situazione. C’è una sorta di incantevole stranezza tipica dell’arte svizzera, un insieme di elementi umoristici, sarcastici, ma anche profondi e inquietanti. Storicamente la Svizzera ha sempre sostenuto la sua scena contemporanea e c’è sempre stata tanta voglia di sperimentare. Basti pensare ad alcune figure storiche, come Fischli e Weiss o Meret Oppenheim, oppure, più recentemente, ad alcuni giovani con un profilo internazionale già molto importante, come Pamela Rosenkranz che recentemente ha rappresentato la Svizzera alla Biennale di Venezia, e Mathis Altmann. La Svizzera è un Paese molto internazionale e la sua scena contemporanea ha un impatto discreto ma importante nel mondo dell’arte».